Donne, du-du-du
In cerca di guai (davvero?)
CULTURA E SOCIETA'
Ludovica Fanelli
11/20/20254 min read
Quante volte l'abbiamo canticchiato questo ritornello? Magari mentre guidavamo l'auto o stiravamo una camicia. A riascoltarlo oggi, con gli occhi pieni di notizie nere e i nervi scoperti, cambia faccia. Diventa una domanda amara. Diventa un’accusa mascherata da ironia.
Davvero siamo “in cerca di guai”?
O siamo semplicemente donne che cercano spazio, respiro, libertà — e trovano, in cambio, controllo, minacce, giudizi, violenza? La verità è che non abbiamo nessuna voglia di guai. Non li inseguiamo. Non li provochiamo. I guai ci trovano. Alla fermata del bus. In ufficio. In casa. Nella chat privata travestita da interesse. Nel “dai, stavo scherzando”. Nel “sei mia”. Nel “senza di me non sei niente”. Nel “se non vieni, vengo io”.
E siamo stanche.
Non una stanchezza normale. Non quello della sera dopo lavoro. Una stanchezza più profonda, vischiosa, che si attacca alla pelle. Quella che ti porti dietro anche quando dormi. Quella che non passa con un weekend, perché il problema non è la fatica: è la realtà.
Siamo stanche di dover stare sempre un passo avanti alla paura.
Controllare se le chiavi sono in mano prima di scendere.
Cambiare strada se vediamo un’ombra sospetta.
Mandare la posizione in tempo reale.
Fingere una chiamata.
Rinunciare a una corsa. A una passeggiata. A una serata.
Vestirci pensando: “Sarà troppo?”.
Sorridere per non farci odiare.
Non sorridere per non farci fraintendere.
Siamo stanche di dover essere strategiche anche quando usciamo a comprare il pane.
Nel frattempo i giornali cosa fanno? Servono la tragedia come fosse un’offerta a tempo. Titolo grosso, foto, due righe d’indignazione di ordinanza, poi il traffico sul raccordo, il meteo, il nuovo scandalo del giorno dopo. Ogni femminicidio dura quanto un caffè lungo. Ci raccontano come se fosse sempre un’eccezione. Sempre una storia particolare. Sempre un raptus. Sempre una follia momentanea.
Non una struttura. Non un problema culturale. Non un sistema.
E invece è proprio lì il punto.
Perché non è solo violenza fisica. Quella è l’ultimo capitolo, il punto di non ritorno.
Prima c’è quella verbale: le battute, le umiliazioni, il tono che ti taglia.
Poi quella psicologica: il controllo, la colpa, il ricatto emotivo.
Poi quella economica: impedirti di lavorare, gestire i soldi, farti sentire dipendente.
Poi quella simbolica: farti passare per esagerata, per instabile, per “difficile”.
Fino a quando non ti riconosci più nemmeno tu.
E sai qual è la cosa più tossica? Che nel frattempo ti chiedono anche di essere forte. Le donne devono essere forti. Resilienti. Capaci. Sì. Ma non invincibili. Non mute. Non rassegnate.
Perché c’è una linea sottile tra forza e abitudine alla violenza.
E a noi non interessa più essere brave a sopportare.
Vogliamo essere brave a vivere.
Invece ci troviamo a dover ridimensionare i sogni. A rinviare viaggi. A scegliere lavori “più sicuri”. A evitare certi orari. A non pubblicare troppe foto. A cancellare geolocalizzazioni. A fare attenzione a tutto. Sempre. Come se la libertà fosse una concessione e non un diritto.
Mentre noi facciamo queste acrobazie quotidiane, c’è ancora chi minimizza: “Non siamo mica tutti così”. No. Non siete tutti così. Ma siete abbastanza da farci paura. E soprattutto siete abbastanza silenziosi quando dovreste parlare, abbastanza distratti quando dovreste intervenire, abbastanza indifferenti quando dovreste prendere posizione.
La violenza non è solo chi colpisce. È anche chi guarda. Chi ride. Chi giustifica. Chi gira la faccia dall’altra parte.
E no, non è stanchezza da vittimismo.
È stanchezza da sopravvivenza.
Perché vivere, per una donna oggi, significa ancora fare mille micro-calcoli di sicurezza. Ogni giorno. Senza ferie. Senza scioperi.
Un algoritmo interno sempre acceso: rischio, probabilità, fuga, margine.
E la musica continua.
Perché sotto quel ritmo c’è una verità: non è che cerchiamo guai.
È che a ogni passo, qualcuno li appende davanti al nostro cammino.
La vera domanda allora non è: “Perché le donne hanno paura?”
La domanda giusta è: "Perché devono averla?"
Perché ancora oggi una donna che viaggia da sola viene vista come una che “se l’è cercata”?
Perché ancora oggi una donna che si veste come le pare viene vista come una che “lo ha provocato”?
Perché ancora oggi una donna che denuncia viene messa sotto la lente, passata al setaccio, smontata, analizzata come se fosse lei l’imputata?
Siamo stanche di dover dimostrare di essere vittime perfette. Siamo stanche di doverci spiegare meglio. Siamo stanche di aggiustare il vocabolario per non ferire nessuno, mentre veniamo ferite sul serio.
Questo non è un blog motivazionale.
Non è un “andrà tutto bene”.
Non è un “siamo forti insieme”.
È un basta.
Basta al romanticismo tossico.
Al possesso scambiato per amore.
Al controllo chiamato gelosia.
Al silenzio chiamato equilibrio.
Alla paura chiamata prudenza.
Perché quella prudenza che ci viene insegnata dall’infanzia non è altro che un sistema di difesa che abbiamo dovuto installare per sopravvivere in un mondo che non ci ha mai rese davvero libere.
E non dovrebbe funzionare così.
Il problema non è insegnare alle donne a difendersi.
Il problema è doverlo fare.
Vogliamo smettere di essere brave a evitare e diventare brave a esistere.
Senza il timore che qualcuno trasformi la nostra vita in una notizia del giorno.
In un nome sotto una foto.
In un numero su una statistica.
Non siamo numeri. Siamo corpi vivi, voci, viaggi, lavoro, futuro, consapevolezza. È la lucidità di chi ha capito che non si può continuare così. Che il “tanto è sempre stato così” è un anestetico scaduto. Che il cambiamento non arriva per abitudine, ma per rottura.
E allora sì, forse siamo stanche.
La stanchezza, quando smette di piegarti e inizia a farti alzare la testa, diventa qualcosa di pericoloso per chi vive di controllo.
Diventa forza ruvida.
Diventa presa di posizione.
Diventa rumore vero.
Non solo du-du-du da sottofondo.
Diventa un no che non chiede più permesso.
Ciao da Ludo
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